Ieri,
organizzato per il CTP 66 Martiri (dove ho imparato l'italiano) e la Biblioteca Civica
Pablo Neruda di Grugliasco, c'è stato l'incontro "Pronunce Diverse" in cui gli studenti-autori stranieri e italiani abbiamo letto i nostri racconti. Alcuni erano saggi, altri erano racconti e altri erano esperienze autobiografiche. Tutti questi brani sono stati scritti in italiano, non nella lingua madre degli autori e poi tradotti, un importante sforzo per tutti noi. Le persone che hanno partecipato e i suoi racconti sono:
- Roza Larissa Ramos de Oliveira (Brasil), Della rinascita
- Sadakat Ali Hydari (Afganistan), L'amore che ci tiene
- Sonia Yaich (Tunisia), Ti voglio bene, Papà
- Ezzohra Abou El Iman (Marocco), Una famiglia felice
- Alina Ramona Caraba (Romania), L'incontrai mentre scendevo le scale
- Andreea Ciobotaru (Romania), L'incontrai mentre scendevo le scale
- Yolanda Gil Jaca (Spagna), L'incontrai mentre scendevo le scale
- Giuseppe Galina (Italia), Legalità
- Tamara Polekhivska (Ucraina), Il mio paese che non esiste più
- Mira Ristic (Italia), La cultura Rom
- Fatima Ataoui (Marocco), Le lacrime di una donna
- Ganga Fernando (Indonesia), Il fiume
Vi lascio qua il mio racconto, un giallo. Per scriverlo, la nostra insegnante ci ha datto la prima frase "L'incontrai mentre scendevo le scale...", frase tratta da "Incontro" di
Guccini, e partendo da essa dovevamo scrivere quello che ci venisse (perciò nella lista dei racconti letti ci sono tre con lo stesso titolo).
“LO INCONTRAI MENTRE SCENDEVO LE SCALE…
…era il mio
senso di colpa. Non avevo previsto che l’avrei avuto. Anzi, ero così convinta di
fare una cosa giusta e che non avrebbe avuto nessuna conseguenza su di me, che
mi sentivo molto soddisfatta. Invece no, scendendo le scale quel giorno sentii
il profumo delle petunie della mia vicina. Quello era lo stesso profumo che si
annusava dalla Signora Benedetta. Lei era una vecchia e ricca donna della
borghesia torinese e io feci la badante per lei per circa un anno. Da lei tutto
era vietato: non si poteva parlare a voce alta, non si poteva cantare mentre si
facevano le faccende, non si poteva entrare con le scarpe, non si potevano
tirare troppo in sù le persiane perché il sole poteva rovinare il colore dei
mobili, non si poteva spreccare l’acqua, ne l’elettricità,... Insomma, era un
posto triste da dove la vita era fuggita tanto tempo prima.
Avevo
trovato quel lavoro per caso: la ragazza che lo faceva prima se ne andava, non
ce la faceva più e io ero disperata. Mio marito era caduto da un ponteggio e si
era rotto la gamba e, siccome lui fa l’imbianchino autonomo dovevamo vivere
praticamente dei soldi che guadagnavo io. Quella casa era l’inferno, più
cattiva di quella donna non poteva esserci al mondo. Mi trattava come se fossi
la sua schiava: mi insultava, mi sgridava e mi picchiava con il suo bastone.
Non lo raccontai mai a mio marito, mi avrebbe detto di lasciarla, ma i soldi ci
servivano, quindi resistetti. Mi fece piangere tante volte quando mi diceva che
ero una disgraziata e una meridionale morta di fame e che dovevo ringraziarla
perché lei mi permetteva di stare al suo servizio. Riusciva a farmi sentire
inferiore a tutti. Dopo le due prime settimane di lavoro mi resi conto che la
odiavo. Mai avevo sentito prima un’avversione così forte. Ma inghiottivo la
rabbia, l’unico mio pensiero era arrivare, fare il mio lavoro diventando il più
invisibile possibile e andarmene. Sopportai tutte le sue vessazioni e, nel
frattempo, mangiai tanta ira che alla fine il mio cervello cominciò, quasi
senza rendermi conto, ad elaborare un piano. Volevo farle pagare tutto quello
che mi stava facendo, ma anche quello che aveva fatto alle badanti precedenti e
quello che avrebbe potuto fare alle successive. Fare qualcosa mentre lavoravo
per lei non aveva senso, sarei stata la prima sospetta. Sono figlia d’un
carabiniere e questo lo sapevo. Quindi, pensando che la vendetta è un piatto
che si serve freddo, decisi di agire una volta che avessi lasciato quel lavoro.
Nel momento
in cui mio marito tornò al lavoro, io potei pensare di lasciare quella casa. Feci
un duplicato delle chiavi cosicché il giorno che me ne sarei andata, le avrei
consegnato il mazzo originale e avrei tenuto il duplicato. La Signora
Benedetta, come saluto, mi disse che meno male che me ne andavo perché non ero
stata capace di imparare niente e che ogni giorno aveva dovuto dirmi come fare
le cose.
Dopo questo,
non la sentii più, non tornai mai da lei. Quattro mesi dopo essermene andata,
cioè, tre anni fa, capii che era il momento della vendetta. La Signora
Benedetta era abitudinaria, quindi ero assolutamente certa che quella sera
sarebbe andata al letto alle 21.30, avrebbe preso il suo sonnifero e si sarebbe
addormentata fino alle 5.00. Lasciai tutto pronto e a mezzanotte mi alzai dal
letto. Siccome mio marito arriva dal lavoro esausto, sapevo che non si sarebbe
accorto di nulla. Tutto quello che sentivo quando vivevo in caserma e quello
che avevo letto nei gialli da ragazzina, ora mi serviva per non lasciare
traccia. Presi la macchina, guidai fino alla Collina e parcheggiai in una via
vicina a quella della Signora Benedetta. Arrivai a casa sua, la solitudine
della villetta fu mia complice. Entrai e andai direttamente, coltello in mano,
nella sua camera. Era lì, sdraiata, stava dormendo, indifesa, vulnerabile come
ogni persona. Tre decise coltellate nel cuore, non di più, per non far capire
che l’assassino fosse una donna. Pensavo che avrei provato sollievo, invece
provai un grande vuoto. Comunque, feci cadere qualche oggetto, misi in
disordine alcuni cassetti e, alla fine, mi portai dietro i gioielli che c’erano
a portata di mano e il contante, in modo che sembrasse una rapina. Quando
uscii, ruppi il vetro d’una finestra, dall’esterno cosicchè i vetri cadessero
all’interno della stanza. Lei si meritava questa brutta fine e io guidai la
macchina tornando a casa soddisfatta perché avevo fatto giustizia.
Da quel
giorno non mi sono dimenticata di quello che avevo fatto, assolutamente, ma ero
tranquilla. Lessi sul giornale la notizia e poi quello che la Polizia aveva detto,
cioè che era stata una rapina, che la vecchia si era svegliata e il ladro, per
timore che lei gridasse, l’aveva uccisa. Vidi anche il suo necrologio su La Stampa.
Ora invece è
diverso, Padre Antonio, lo sa che sono incinta e tutti gli odori li sento accresciuti.
E il profumo delle petunie e il bambino che porto mi hanno fatto capire che non
posso andare avanti con questo pesante carico da sola. È per questo che volevo
confessarmi. Quella donna era cattiva, ma anch’io lo sono diventata. Pensavo di
essere una buona persona, invece non lo sono, solo Dio decide quando deve
morire ognuno di noi, ma io vorrei l’assoluzione.”
“Ma, Lucia,
figliola, non c’è penitenza che ti possa assolvere di questo crimine che
commettesti” – rispose il Prete – “E capisco che tu non voglia confessarlo alla
Polizia”
“Certo, Padre
Antonio, io porto una nuova vita dentro e non posso andare in carcere, morirei
se mi togliessero il bambino. E so che questa croce la dovrò portare tutta la
mia vita, ma so che Lei mi aiuterà, perché Lei è buono”
“D’accordo,
figliola, per espiare la tua colpa cercherò qualcosa da farti fare, come
volontaria ci sono tanti lavori aiutanto agli altri. Per ora, però, recita
dieci Padre nostro e cinque Ave Maria. Io ti assolvo dai tuoi
peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”
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